Una delle mie competenze più richieste è la valutazione della disprassia orale, per questa ragione ho potuto costruirmi un bagaglio clinico da integrare alle conoscenze dalle quali sono partita. Quando intendo “clinico” intendo frutto di quel chinarmi sul paziente e dell’osservare in modo empatico, o se preferite col neurone specchio, le sue difficoltà e sentirmele nel corpo, così da capire meglio come aiutare. In fondo la diagnosi non è che il primo momento della cura.
La bocca ha paura
I bimbi che presentano disprassia orale temono le mie mani. Solo con estrema delicatezza posso toccarli sulle guance e sulle labbra e l’immissione del dito nella cavità orale può essere subita come violenza.
Mi sono interrogata molto su come questo possa accadere, visto che comunque introducono in bocca senza difficoltà strumenti (la cannuccia, lo spazzolino da denti) e spesso mangiano con voracità, a grandi bocconi, riempiendosi in modo spropositato la bocca.
Mi sono risposta che questa paura, questa intolleranza dell’essere toccati in bocca è perché l’intrusione avviene in modo incontrollabile (il dito è mio e lo posso muovere a mio piacimento). Ciò che a questi bimbi manca è proprio la capacità di “sentire” ciò che avviene dentro di loro e, quindi, di gestire l’intruso e di difendersene. E’ inevitabile che questo generi sospetto e induca a ritrarsi.
Nella mia vita da clinico mi sono convinta che una delle problematiche della disprassia orale è proprio non conoscere la propria bocca, non averne una geografia, non poter trarre informazioni utili dalle sensazione nate al suo interno. Non saper trasformare cioè sensazioni in percezioni, dando loro un nome, quello dell’oggetto introdotto, ma non solo, attribuire una dimensione, una direzione, addirittura una “intenzione”.
Le ragioni della paura in visita sono nell’essere l’azione subita e non agita personalmente. Solo così mi spiego la voracità a grandi bocconi, che scivolano non masticati verso l’esofago, il riempirsi di biscotti la bocca, spingendone l’ultimo frammento col dito all’interno, azioni tutte queste volute e realizzate soggettivamente senza timore.
Me ne deriva la raccomandazione al logopedista non solo alla prudenza ma alla terapia multimediale, in modo che ciò che si inserisce nella bocca, come stimolatore di abilità stereognosica e competenza tattile e propriocettiva, sia visto nel suo direzionarsi e muoversi (basta lavorare allo specchio) e sia prima manipolato con le mani. Occhi e mani guardiani della bocca!
E passo alle mani
Osservo il mio nipotino. Ha nove mesi. Ora possiede una discreta coordinazione occhio mano e riesce ad afferrare ciò che gli interessa. Ma l’azione non porta a un’osservazione accurata di ciò che si è conquistato. Quando non confluisce in una manipolazione giocosa il prendere è finalizzato al portare alla bocca.
E’ lì che inizia la vera conoscenza dell’oggetto. Non sono le mani che lo “tastano”, che lo rigirano per capirne forma e consistenza. Non sono gli occhi che indagano le dimensioni. E’ la bocca!
La sequenza: vedo, sono attratto, prendo è finalizzata alla triade: succhio, mordo, conosco.
E’ straordinario come le mani abbiano questa diversa funzione conoscitiva nell’adulto e nel piccolo bambino. In noi sono serve degli occhi (rigirano, mostrano), in lui sono ancelle della bocca (portano, infilano).
Questa osservazione è preziosa. Mani e bocca sono intimamente correlate, finalizzate alla conoscenza sin dall’inizio della vita ma è la bocca nei piccolini la prima ad affacciarsi sul mondo, a mettersi dentro il mondo.
Questo mi ha portato a un’altra deduzione clinica, facilitata dal riscontro in anamnesi di due eventi significativi, se non presenti in tutti i bambini, comunque più frequenti nei piccoli disprassici.
Il primo è il racconto che i genitori fanno di una scarsa tendenza all’esplorazione orale nei primi mesi di vita. La seconda è la difficoltà, addirittura il ribrezzo, che i piccoli provano nella manipolazione “che sporca”, come l’utilizzo dei colori a dita, l’impastamento, il gioco con la sabbia.
Sappiamo che le proiezioni corticali di mano e bocca sono limitrofe, forse addirittura in minima parte sovrapposte. Ecco che allora mi sento di invitare i logopedisti (e i genitori) a proporre esperienze propriocettive, tattili e termiche alle manine dei bimbi che hanno in terapia, così che le mani imparino affinché la bocca stessa impari che il tocco non è pericolo, che esistono spazi ancora tutti da esplorare e sensazioni che, se ben guidate, da un distretto si proiettano sull’altro.
Prendere in mano il cibo, manipolarlo e portarlo alla bocca può essere una delle tante strade terapeutiche, così come impastare con le mani mentre si assapora qualcosa di altrettanto morbido e duttile.