Una cosa non riesco a sopportare della terminologia contemporanea: la associazione dei termini cliente e paziente in quella ambigua espressione “il cliente-paziente” tanto spesso usata.
Le due parole non hanno nulla in comune.
La prima, cliente, deriva dal latino e designava nella antichità le persone che si riunivano nella casa del pater familias a omaggiarlo la mattina, ottenendo favori e regalie e dando in cambio al benefattore sostegno incondizionato nelle sue azioni politiche e nella sua carriera professionale. Soggetti spesso capaci solo di una vita parassitaria, non si situavano all’interno di un chiaro rapporto mercantile di offerta, acquisto, vendita di beni, preferendo acquisire invece che acquistare.
La seconda, paziente, è il participio presente del verbo patior latino (soffro, sopporto, mi carico) e sta ad indicare un soggetto sofferente, nel corpo o nello spirito. Un soggetto quindi fragile nel senso proprio del termine.
Anche volendo distaccarci dalla Roma antica, andando ad abbracciare la logica aziendale sanitaria, un soggetto fragile non potrà mai porsi come cliente nel senso proprio del termine, in quanto alla sofferenza non si risponde con la vendita di beni di consumo (neppure di competenze!) ma con l’accoglienza e la cura.
Ridotto a cliente, il malato è esposto a tutti i rischi ai quali lo espone il proprio stato di fragilità : acquisto di speranze infondate, di cure inutili o superflue, fascinazione da parte di millantatori, non riconoscimento di comportamenti finalizzati unicamente alla vendita.
Anche il medico in questa ottica non è meno in pericolo. Seduzione del malato al fine di renderlo cliente (in senso latino del termine, cioè seguace e accolito), falsificazione dell’immagine di sé con negazione delle proprie inevitabili debolezze e incompetenze, paternalismo con manipolazione delle scelte più intime del paziente, induzione alla messa in atto di comportamenti finalizzati solo al mantenimento dello status del sistema aziendale sanitario (controlli inutili, visite a parere superflue).
Nel rapportarmi al malato sono incapace di accogliere la logica aziendale e di entrare nella relazione clientelare.
La sofferenza dell’altro mi tocca, non solo come medico professionalmente preparato a cercare di ridurla, ma come persona. Non sono in grado di scindere la clinica dalla vita. Ogni malato è, come lo sono anche io, paziente e sofferente, solo con conoscenze minori e competenze non sufficienti a cercare di sanarsi.