Desta preoccupazione la facilità con la quale si rimanda la presa in carico di un bimbo portatore di grave o gravissimo disturbo del linguaggio.
Più volte mi è capitato infatti di sentire di piccoli che non parlano e magari neppure vocalizzano in modo prosodicamente corretto che vengono rimandati per la presa in carico al raggiungimento del quarto anno di vita, affidando compiti cosiddetti “di stimolazione” ai genitori.
La prima domanda che mi pongo, ma anche la più spontanea, è chiedermi se si è ben coscienti del carico di responsabilità che così facendo si stanno riversando sulla famiglia.
La seconda è interrogarmi su quali mai indicazioni si potranno dare tali da riempire di attività utili allo sviluppo del linguaggio i 4 / 6 mesi che separano tra loro gli incontri di monitoraggio.
Dalla parte del genitore
Se ho un piccolo che non parla, se questo bimbo è portatore di una patologia grave, anche solo se l’ha presentata e ora ne è guarito, la mia attenzione è volta al controllo del suo stato di salute.
La paura è stata per me la compagna delle mie giornate, l’ansia per la crescita e lo sviluppo del mio bimbo si è intrecciata dalla sua nascita (e spesso anche dalla sua vita intrauterina) al senso di inadeguatezza che ogni evento avverso sulla prole produce su chi l’ha generata.
Pur che io sia una persona istruita, preparata, quando lo sviluppo delle capacità comunicative devia dall’atteso non posso da solo, anche con i consigli degli esperti e con tutta la mia intuizione, trovare strade alternative di comunicazione, modalità di stimolazione della oralità, delle abilità della bocca, della vocalità e della capacità linguistica veramente efficaci.
Non è giusto lasciarmi senza sostegno.
Come ogni comunità la famiglia alla quale appartengo ha sviluppato i propri rituali, ha stabilizzato modalità di interazione, applicato stili comunicativi ripetitivi. Come posso percorrere nuove strade? Dove trovo “il come e il dove” della stimolazione quotidiana, come imparo a capire e rimodellare la comunicazione del mio bambino?
Credo ci sia una sola risposta praticabile: assistendo alla seduta di terapia logopedica.
Vedendo un altro adulto interagire col mio piccolo e rubando, letteralmente rubando, idee e risorse a chi, per preparazione e mestiere, tali risorse le sa mettere in pratica.
Trasformare una vocalizzazione in una melodia prosodicamente significante, attuare un modellamento fonoarticolatorio, trarre spunto da un suono, da un rumore per attrarre l’attenzione del bambino, raccogliere e riprodurre la sua produzione, anche solo vocalica, utilizzare frasi brevi per facilitarne la comprensione, accompagnare la parola al gesto e progressivamente far sì che la prima si sostituisca al secondo è un’arte che si apprende all’università e si perfeziona nella pratica. Controllare, mettere argini alla impulsività, focalizzare l’attenzione, porre barriere alla iperattività motoria non sono frutto di intuizioni.
La frase “vediamo come evolve” seguita da un appuntamento a sei mesi, magari accompagnata da qualche frettoloso suggerimento, mette solo in ansia. E se non evolve? E se fosse per colpa mia?
Chiudere una seduta conoscitiva con affermazioni come “intanto le consiglio di mettere in atto la comunicazione aumentativa alternativa” senza giocare ogni carta per stimolare la vocalizzazione, la sonorizzazione dell’azione, l’espressività mediata dal verbale mi appare sempre un cedere le armi, un rinunciare a lottare per il bene del bambino proprio in quel periodo della vita dove massima è la spinta a comunicare oralmente e favorevole la risposta alla stimolazione.
Occupiamoci di bimbi piccolissimi, facciamo stare in seduta il genitore, lasciamo che ci rubi l’arte della comunicazione. Non carichiamo di responsabilità chi per ragioni personali tenderebbe a colpevolizzarsi di ogni insuccesso.
Logopedia creativa? Certamente.