Non c’è cosa che io sia riuscita a insegnare che non sia stata colorata dalle mie emozioni. A volte era la consapevolezza della bellezza delle tematiche a darmi felicità, altre era una intuizione che mi si materializzava nella mente per aver trovato una nuova correlazione tra le cose che spiegavo, altre ancora era la pura gioia di insegnare fianco a fianco a qualcuno che sentivo amare l’argomento nel mio stesso modo: ne avvertivo fisicamente la passione e la facevo mia.
Non credo si possa passare qualcosa o apprenderla senza entusiasmarsi. Eppure nella didattica non si ama di un amore puro, reso superiore dal tutto sapere ma di un amore disordinato, rumoroso, profondamente imperfetto, perché capace di suscitare dubbi, di fare domande, di affermare: “non ancora, non mi basta”.
Posso dire di avere fatto lezioni colorate. Alcune di un bel rosso acceso, a Ravenna, tanto era la voglia di ben fare, di corrispondere alla fiducia che mi veniva data. Altre segnate da sfumature di blu, colore del pensiero, quando la malattia che descrivevo mi obbligava a pensare al senso della vita e della cura.
Di un bel verde scuro sono state quelle di medicina narrativa. Il verde del sottobosco, della terra dove radicano gli alberi. Mentre il giallo è entrato nelle ore dedicate all’infanzia, illuminandole con i colori del pieno pomeriggio.
Ai miei studenti sono grata perché ogni volta che mi sono spenta per stanchezza, mi hanno restituito con gli sguardi la scintilla che andavo depositando nei loro cuori. Mi auguro che chi è stato in aula con me si sia sporcato con le tinte che coloravano le ore e che tornato a casa non si sia stupito di lasciare impronte rosse, blu, verdi, gialle sui libri che ha ripreso in mano per continuare a studiare. Da quei colori, più che dalle fredde nozioni, può trarre forza per insegnare a sua volta.