Nella mia storia personale sono stata salvata dal nozionismo scientifico e dalla frenesia di “tutto misurare” per trovare leggi che mi togliessero dall’angoscia del decidere dalla mia tenace passione per l’arte.
Ho frequentato la Civica Scuola d’Arte Drammatica diplomandomi in regia, ho lavorato con il Teatro Laboratorio di Wroklaw, insegnato voce agli attori, scritto poesia, drammaturgia e narrativa.
Di fronte alla comunità scientifica ho dovuto nascondere questa identità artistica, giustificandola come una necessità conseguente al mio strano lavoro di medico della voce. Ma artista, oltre e forse più che medico, mi sono sempre sentita.
E’ con questa consapevolezza che, a questo punto della mia mia vita, affermo che sono un clinico non “nonostante” io sia un artista ma che sono un clinico perché sono un artista.
Solo l’arte ha saputo darmi quella capacità di “guardare con gli occhi della mente”, come dice Amleto, che sa penetrare la materia più spessa e opaca e che permette di giungere al succo delle cose. Solo le discipline umanistiche mi hanno dato conforto nella ricerca irrisolta del perché della malattia e mi hanno sostenuto quando chiedevo perdono al malato per osare toccarlo, per indagarlo nella sua sofferenza e per conoscere di lui e del suo corpo più di quanto egli immaginasse.
Considerata per secoli unicamente Scienza, la Medicina ha dimenticato di essere principalmente Sapienza.
Non solo conoscenza di anatomia, fisiologia, patologia e terapia ma complesso insieme di intuizione, capacità di relazione e attitudine all’ascolto.
Chi si è cimentato nel suo studio si è visto negare dalle necessità di apprendimento il tempo di coltivare le discipline cosiddette umanistiche, quali la poesia, la letteratura, l’arte figurativa, la filosofia in una sorta di scotomizzazione della matrice principalmente “umana” del curare a favore di un nozionismo scientifico a rischio di sterilità e di un tecnicismo applicativo allontanante.
Come molti colleghi ho rischiato di essere resa analfabeta di ritorno dai tomi di anatomia e, successivamente, sorda e cieca alle esigenze delle persone dalla mentalità aziendale delle strutture sanitarie.
Con alcuni compagni dagli anni 70 mi sono battuta affinché lo studio “matto e disperatissimo” non prosciugasse completamente le mie facoltà intellettive, rendendomi incapace di ricercare, fruire, difendere il bello e la cultura e, con essi, l’ambiente, gli animali, la vita stessa.
Come molti mi ritrovo a essermi spesa su due fronti.
Quello della conquista del conoscere (fondamento del cosa fare) e quello della conquista del sapere (fondamento del come e del perché fare).
Il conoscere mi è stato reso possibile dalla istituzione accademica. E di questo sono grata alla università per le migliaia di informazioni che mi ha dato, ai corsi post-laurea, agli aggiornamenti professionali, all’editoria scientifica, ai congressi. Ma il sapere lo devo alla poesia, alla dolce Saffo, alla drammaturgia, all’esperienza dell’ascolto della musica e alla visione della danza.
Il termine sapere deriva dalla forma transitiva del verbo latino sapio, che non soltanto significa possedere conoscenza, ma avere senno, sapienza e giudizio.
Non a caso nella sua forma intransitiva il verbo significa avere gusto, sapore, odore.
Come a significare che chi ha sapienza è buono all’assaggio, ha in sé un succo odoroso, un aroma.
Le due accezioni si trasmutano l’una nell’altra, fluendo senza soluzione di continuità dalla forma intransitiiva alla transitiva, in una sensoriale catena che dal naso/bocca (il sapore), arriva all’azione (il saper fare) e prosegue dall’agito allo spirito (avere sapienza), passando da sapore/odore corporeo a sapore/odore spirituale. Il sapiente effonde. Il sapiente è profumato!
Per tutti coloro che desiderano essere profumati inizio con quest’anno la proposta di attività artistiche parallele ai consueti corsi formativi dedicati agli aspetti scientifici. Chi desidera può trovare informazioni sui gruppi Facebook “Arte da Camera: coltivare l’immaginario” e “Le parole che curano”.