La mia città chiude domani. E’ nella zona rossa. Rossa come il sangue, come la passione, come i segnali di pericolo.
La giornata è bellissima. Esco per strada, non voglio perdermi un’ultima camminata. Sono un prigioniero portato in cella che cerca un raggio di sole.
Questa mia città, così orgogliosa dei suoi commerci, dei suoi grattacieli, questa città che ha vissuto dei molti turisti, questa mia città sta implodendo nella sua entropia.
Ha avuto troppo di tutto. Troppe persone, troppi affari, troppi ristoranti, troppi bar, troppe ambizioni.
Dopo aver vorticato nel turbine dell’euforia, saremo risucchiati dall’immobile nucleo dell’uragano. Lì da domani staremo fermi, fissati nei nostri atteggiamenti abituali da una fata invidiosa, come nel bosco incantato di Rosaspina.
Mentre vado in centro (voglio salutare il “mio Duomo”, la “mia Scala”), dal finestrino del tram vedo uomini anziani. Ai tavolini sorseggiano vino. Sono le tre del pomeriggio. E’ l’ultimo bicchiere.
Ultimo bicchiere per decine di ragazzi assiepati in Garibaldi, con un aperitivo già in mano, incerti se considerarsi cresciuti bambini all’ora della merenda o adulti viziosi, incapaci di aspettare la sera.
Saracinesche chiuse in anticipo degli esercizi cinesi. Saracinesche chiuse per sempre di negozi italiani che mai riapriranno.
Cammino tra fantasmi. Vetrine con scritte promettenti di prossima apertura, coming soon, annerite dai mesi.
Mesi che sono passati sui progetti, sui sogni, asfaltandoli.
Busso ai vetri del negozio di Luciana. E’ lì, seduta al bancone. Vorrei dirle che sono stata in pena per lei sapendola malata e che ora son felice di ritrovarla al suo posto, come un capitano al timone della nave.
Viene ad aprirmi. Ci stupiamo di darci del tu, dopo anni di rispettoso distacco. Sulla medesima zattera ci ritroviamo sorelle.