Una delle caratteristiche della comunicazione sui social è la presentazione di un’immagine di sé positiva. Le modalità possono essere molteplici: dalla fotografia studiata nei dettagli e preceduta da una seduta di trucco e parrucco, all’immagine con sfondo invidiabile, sia esso un albergo di lusso, un panorama o un’automobile.
Io sono ciò che dimostro di essere
Nel mio ambito lavorativo molte sono le condivisioni che ritraggono i protagonisti in abiti professionali. Di moda per molto tempo sono stati la presenza su un podio congressuale come immagine di copertina, il selfie in abito da congresso, le foto di gruppo in sala operatoria, magari con le dita della mano destra a segnalare vittoria. Trionfalismo ora sostituito da autoritratti in tuta bianca, mascherina e visiera a testimoniare il proprio impegno nonostante il rischio.
In alcuni ambiti si utilizzano fotomontaggi costruendo gruppi nei quali l’immagine dell’emerito di turno appare circondata dai meno noti collaboratori. Corsi, conclusioni di percorsi accademici vengono celebrati con foto trionfalistiche, dal diploma self-made all’inevitabile e petrarchesca corona d’alloro sulla testa.
Anche immagini più intime, familiari e di amicizie d’annata, sono per lo più limitate a compleanni, tavole imbandite e regali ricevuti. Chi fa torte le fotografa, chi al ristorante mangia una leccornia la fotografa. Infine, chi non ha nulla da esibire esibisce l’aggressività, il rancore, la critica sistematica, ulteriore modo per presentarsi forti, invincibili, di successo.
L’avatar vincente
Ciò che viene condiviso è l’immagine vincente, invidiabile (per bellezza, professione, ruolo, censo, condizione sociale, amicizie altolocate o con personaggi famosi). Tutti noi ci stiamo creando un avatar che contrabbandiamo come la nostra reale identità.
La costruzione di un alter ego sociale è un evento antico, molte persone si comportavano correttamente in società per poi frequentare il vizio, l’illegalità. Ma ciò che accade sui social è del tutto diverso.
La costruzione dell’avatar di noi stessi segue regole nuove. Regole che si imparano nel tempo valutando il numero di like e di condivisioni a un post. Più abbiamo successo di pubblico, più quell’aspetto dell’avatar è da promuovere. Più il social premia nelle visualizzazioni un concetto, un’idea, più quella idea va ripetuta in altre forme. Meno una comunicazione è gradita, più vanno poste barriere a una sua nuova uscita.
L’avatar non possiede una identità, una personalità coerente. L’avatar è la conseguenza del consenso. Si forma man mano, giorno dopo giorno, mettendosi completamente nelle mani dell’audience.
In una vita priva di soddisfazioni, cento like e venti condivisioni fanno la differenza. Qualcuno mi apprezza, anche se non apprezza me ma quella parte di me che a lui è gradita (il che significa, in fin dei conti, che apprezza se stesso).
Si perde così l’interezza della persona, che si comunica solo parzialmente, filtrando il buono e conservando per sé (senza dialogo? senza condivisione?) l’amarezza, il fallimento e la sfiducia.
La fragilità come risorsa
La nostra fragilità è in realtà ciò che ci rende partecipi empaticamente al mondo degli altri e i nostri fallimenti, le nostre disillusioni sono la base sulla quale si costruisce il cambiamento e ci si rinnova.
Questa scotomizzazione sistematica del negativo, o almeno di quella parte di negativo sul quale non si può fare ironia social, ci priva di un’occasione di riflessione importante, riflessione che potremmo fare con altri, perfino a beneficio di altri.
Uomini e donne sono esseri imperfetti per costituzione, che imparano a vivere facendo tesoro della caduta. Il loro valore non si misura sui risultati positivi. Le persone valgono per la loro capacità di riflessione, di accettazione della sconfitta, per la resilienza.
L’occasione data al dialogo dai social e alla condivisione della vita in una piazza più ampia del tavolo da pranzo è da non sprecare, se vogliamo davvero comunicare e non solo autocelebraci, promuovere il nostro marchio o i nostri prodotti.