1. La norma come norma maschile
Molte delle ricerche che hanno affrontato nel corso degli ultimi cento anni le tematiche relative allo sviluppo psicologico dell’uomo hanno peccato di un identico pregiudizio: prendere come norma di comportamento la vita (e con essa le scelte e gli obiettivi) del maschio.
Freud costruisce l’intera teoria dello sviluppo psicosessuale umano intorno alle esperienze del maschio sfocianti nel complesso edipico. Centralizzando le sue riflessioni sulla particolare struttura (intesa come normativa) della psiche maschile, egli si trova costretto a giustificare la posizione della donna in connotazione negativa, immettendola a forza nella costellazione libidica maschile e attribuendole “invidia “ per ciò di cui si trovava mancante. Le diversità rappresentate dalla donna nei confronti dell’evoluzione del maschio (ad es. l’attaccamento preedipico alla madre) viene visto come prova di differenza generante inferiorità, in altre parole come segno del fallimento evolutivo della donna. Poiché infatti la formazione del Super-io, cioè della coscienza morale, risulta legata alla paura della castrazione, essa sembra potersi avere con pienezza solo nel maschio. Nella femmina infatti il Super-io non può essere “così inesorabile, così impersonale, così indipendente dalle sue origini affettive, così come esigiamo che sia nell’uomo” . La donna “mostra un minor senso di giustizia dell’uomo, minor inclinazione a sottomettersi alle grandi necessità della vita…..troppo spesso si lascia guidare nelle sue decisioni da sentimenti di tenerezza e di ostilità” (da Freud, Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi 1925).
Nell’ottica del pensiero psicanalitico classico la differenza anatomica induce quindi differenze di livello morale insuperabili, così come insuperabile è la diversità biologica.
Piaget riversa la propria visione dei valori morali negli studi dedicati allo sviluppo morale dei bambini, così che ciò che viene interpretato come segno dell’avvenuta maturazione etica nell’infanzia si aggiusta a un modello maschile adulto di cui l’autore è portatore. Nelle sue ricerche sul gioco infantile egli rileva che i maschietti si sentono attratti, in misura maggiore anche con l’età, dalla elaborazione formale di regole in grado di portare allo sviluppo di procedure giuridiche capaci di sanare le controversie. Nel gruppo maschile il buon giocatore è colui che applica e propone la regola così come la disputa è sanata da una verifica della conformità alla legge. Le bambine, per contro, sono meno attratte dall’aspetto “legale” dell’interazione giocosa e dimostrano un atteggiamento più pragmatico nei confronti delle regole che “esse considerano valide sino a che il gioco le ripaga”. Esse sono non solo più tolleranti, ma più disposte ad ammettere eccezioni e ad accogliere innovazioni. Poiché l’autore considera il “senso di legalità” essenziale per lo sviluppo morale, non è difficile comprendere come egli ritenga questo più sviluppato e maturo nei maschi.
Il rispetto per le regole, indispensabile per lo sviluppo morale, si acquisisce giocando a giochi impostati sulle regole.
Janet Lever, più recentemente, nell’interpretazione dei risultati dei propri lavori riversa invece la premessa implicita che il modello maschile risponda meglio ai requisiti della società (forse perché il migliore in relazione alle richieste possibili di una società mercantile avanzata, nella quale la realizzazione soggettiva è identificabile con il successo nel mondo del lavoro). Anche questa autrice tende a identificare la buona coscienza morale nella capacità di sanare controversie appellandosi a principi. L’autrice giudica la sensibilità e l’attenzione agli altri, dimostrate dalle bambine, come poco rispondenti alle leggi di mercato e capaci di ostacolare la riuscita sociale e lavorativa.
Se le donne non vogliono rassegnarsi a ricoprire ruoli subordinati da adulte, dovrebbero giocare come i maschietti da bambine. Le bambine non amano il litigio, quando questo incorre nel gioco, preferibilmente abbandonano. E’ quindi costitutivo alla genesi dell’etica femminile proprio il mancato cimento con ciò che invece facilita e asseconda il nascere della coscienza morale. Il contendere, la disputa e le occasioni di confronto sono tipiche del rapporto tra maschietti, su di esse si edifica la naturale propensione alla elaborazione di regole. La Lever conclude che col gioco questi ultimi (e solo loro) acquisiscono sia l’abitudine all’indipendenza, sia le abilità organizzative necessarie a coordinare gruppi anche numerosi. Partecipando ad attività competitive poi, quali sono quelle sportive, i maschi apprendono a giostrare i rapporti in termini di rivalità fraterna, intesa alla riuscita del migliore.
Le bambine si limitano, invece, al gioco “intimo”, all’interno della cerchia delle amiche del cuore. Il loro gioco riproduce il modello sociale dei rapporti umani primari, esso non insegna il ruolo dell’ “altro generalizzato” (cioè non prepara all’astrazione dei rapporti umani) ma contribuisce allo sviluppo dell’empatia che è alla base della relazione con l’ “altro particolare”.
I ragazzi e le ragazze arrivano alla pubertà con un diverso bagaglio esperienziale sociale e un diverso orientamento interpersonale
Erikson applica le proprie ricerche all’analisi dello sviluppo del senso morale negli adolescenti. Egli descrive quattro fasi nello sviluppo psicosociale nell’infanzia. All’età dell’adolescenza è legata la quinta fase, consistente nella formazione di un coerente senso di sé e nell’affermazione di un’identità capace di porre le basi per le capacità dell’adulto di amare e lavorare.
Prima fase(allattamento, dipendenza, richiesta di accudimento) | opposizionefiducia – sfiducia | esperienza di rapporto, dalla quale deve sorgere la consapevolezza di una separazione
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Seconda fase(possibilità della deambulazione autonoma, segno di distacco) | opposizioneautonomia –vergogna/dubbio | nascente consapevolezza di sé come essere separato e agente autonomo (primi passi)
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Terza fase(nascita dell’autonomia e della ribellione all’imposizione) | opposizionespirito di iniziativa – senso di colpa | critica nei confronti dei genitori che reprimono i desideri
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Quarta fase: età scolare(acquisizione di conoscenze e abilità della cultura di appartenenza)
| opposizioneindustriosità – senso di inferiorità | comprensione delle abilità dei genitori e riduzione della critica |
Quinta fase: iniziativa autonoma nascita di una identità basata su una ideologia che sa giustificare i doveri della vita
Nell’adolescenza la ragazza tiene in attesa la sua identità preparandosi ad attrarre l’uomo, il quale arriverà a occupare il suo spazio interiore L’essere umano femminile giunge a conoscersi per come lo riconoscono gli altri, vale a dire attraverso i rapporti che è in grado di intrattenere.
Nel maschio il senso di identità precede l’intimità. Nella femmina identità e intimità fanno parte di una nebulosa evolutiva alla quale solo la relazione con l’altro darà ordine. Ancora una volta l’esperienza maschile definisce la norma, dalla quale la donna si discosta.
Anche le favole confermano il medesimo stereotipo di sviluppo femminile. Biancaneve, scacciata e minacciata proprio per ciò che è in lei simbolo della “nuova donna”: bellezza e dolcezza, viene svegliata dal principe quando ormai è perduta nel sonno della morte e insediata finalmente nel ruolo di moglie-regina che le spetta. Identica sorte tocca a Rosaspina che, addormentata per il potere del fuso, giace in un sonno lungo cento anni, riaprendo gli occhi solo al bacio del principe. Principi necrofili?
Nel mondo delle fiabe al raggiungimento della pubertà da parte delle bambine fa seguito un periodo di passività totale, in cui, non solo la femmina non è portatrice di alcun ideale (giace), ma addirittura non accade nulla al suo intorno (l’intero castello, coi suoi abitanti, si addormenta). Solo la scoperta dell’intimità (il bacio) può risvegliare l’eroina adolescente. Essa torna alla vita non già per conquistare il mondo ma per porsi accanto al suo sposo, cioè per definirsi all’interno di una relazione amorosa.
2. Nuove prospettive di interpretazione dell’universo morale femminile
Si deve a Nancy Chorodow, psicanalista femminista, una diversa interpretazione del processo evolutivo dei due sessi.
Secondo l’autrice in tutte le culture è la donna a farsi carico della cura dei piccoli, ma le dinamiche interpersonali che intercorrono sono diverse per la femmina e il maschietto. La formazione dell’identità femminile ha luogo nel contesto di un rapporto senza fratture, nel quale le figlie si vivono come “simili” alla madre, così che l’esperienza dell’attaccamento affettivo si fonde con la nascita dell’identità. Al contrario i maschi sono vissuti dalle madri come “polo opposto”, così che essi, per identificarsi come individui, sono costretti a compiere un processo di distinzione precoce della madre da se stessi. Di conseguenza lo sviluppo maschile prevede “un’individuazione più accentuata” e una maggiore autonomia di quello femminile. Naturalmente l’esistenza di percorsi evolutivi diversificati non significa che la donna abbia “confini dell’io più deboli dell’uomo”. Significa piuttosto che la bambina “emerge da questa fase della vita con una riserva di empatia incorporata nella sua definizione di sé, come non accade invece al maschietto… con una più solida capacità di esperire come propri i bisogni e i sentimenti dell’altro” .
Legate a questo carattere dello sviluppo femminile e maschile sta la diversità del sentire:
- per l’uomo le esperienze di separazione e di individuazione sono connesse e connaturate all’identità individuale
- per la donna l’esperienza di dipendenza non è mai contraddittoria con quella di identità; la bambina cresce secondo criteri di “continuità e in relazione con il mondo oggettuale esterno” dal quale non è tenuta a dimostrare autonomia per riconoscersi come individuo adulto.
3. La bioetica femminista della cura
Nella cultura femminista, a partire dall’analisi della diversità costitutiva dello sviluppo maschile e femminile, si è andata evolvendo, dagli anni ottanta, una riflessione tendente non più all’affermazione dell’uguaglianza tra i sessi (femminismo umanistico) ma alla rivalutazione della differenza, rispettosa della unicità dell’individuo (femminismo differenzialista). In quest’ambito culturale si sono ricercate, nello specifico del sentire femminile, quelle qualità che fanno dell’alterità un valore da non negare, ma piuttosto da accogliere e assumere.
La voce morale delle donne ha iniziato così a rendersi interlocutrice feconda, non con la dimostrazione di una superiorità pregiudiziale, ma attraverso la valorizzazione di aspetti dell’umano che erano stati da tempo confinati in un giudizio screditante.
Carol Gilligan, iniziatrice di questo discorso, individua come preconcetto pregiudiziale della morale corrente l’identificazione delle qualità etiche adulte con le qualità tipiche della virilità: individuo isolato e autonomo rispetto ai legami con l’altro, indipendente, libero. Su questo modello si è configurata una concezione della società intesa in termini di diritti e doveri, nella quale i rapporti sono organizzati nella prospettiva maschile secondo il modello della gerarchia. I desideri, le prospettive di autorealizzazione, gli stessi valori sono centrati sull’autoaffermazione e la competizione con gli altri.
In questa prospettiva i conflitti di valori si traducono in conflitti di principi, la scelta etica equivale alla identificazione della gerarchia di questi ultimi e alla loro applicazione, oltre l’individuo e nonostante la relazione. Il malessere è dato dal non raggiungimento delle posizioni di vertice, L’ansia deriva dalla paura che qualcuno ambisca al medesimo obiettivo. L’allontanamento dell’altro è la garanzia della realizzazione personale. L’autorità è la modalità di mantenimento della supremazia.
La donna struttura invece la propria vita nell’ottica della reciproca dipendenza. Essa tesse intorno a sé una rete di rapporti e di relazioni, basate sulla interdipendenza. I conflitti tra valori per la donna divengono così lacerazioni del rapporto. Il disagio è rappresentato dall’essere sospinta ai margine della rete e di non poter più godere dei legami. L’ansia è frutto della lontananza affettiva, mentre il successo personale è identificato con il mantenimento della buona relazione .
Più che una morale fondata sui principi e sulle fredde regole, la donna privilegia la comunicazione interpersonale, la responsabilità, la relazione di accudimento dell’altro. Proprio dall’effettiva gratificazione derivante alla donna dall’accudimento dell’altro, deriva il manifestarsi della qualità etica del rapporto principalmente nella cura.
Ma che cosa si intende col termine cura?
E’ possibile individuare tre accezioni differenti (N. Noddings, 1984):
1. una condizione di ansietà e di apprensione
2. un’attitudine di disponibilità nei confronti dell’altro, che si traduce nel comprenderne la reale situazione e i bisogni
3. un sentimento di affetto e di solidarietà, espresso da un desiderio di stare insieme e di godere della presenza dell’altro.
Essa è quindi identificabile (H.Jonas) in una “paura altruistica” secondo la quale il destino dell’altro non solo ci interessa, ma ci riguarda personalmente e ci appella a una sollecitudine nella quale ne va anche di noi. In essa è evidente la consapevolezza della propria fragilità e l’apprensione per la “vulnerabilità” di altri esseri, la preoccupazione per la “loro esistenza minacciata”.
In questo senso forte l’etica della cura è in grado di mettere in discussione il presupposto di separazione, sotteso all’idea di diritto. Al centro della visione femminile si propone, come principio guida, quello della connessione.
E’ la nascita di una morale della responsabilità, che si differenzia da una morale dei diritti. Essa assegna la priorità al rapporto, non più al singolo individuo.
Secondo questa visone (L. Battaglia, 1997) “ la vita, intesa come una trama cui tutti apparteniamo e da cui tutti deriviamo, è salvaguardata da un’attività di cura responsabile ed è basata su un legame di interdipendenza anziché su un contratto tra eguali. ….La vita morale si definisce come tale non perché risponde a un astratto sistema di regole, ma perché riesce a costruirsi come una continuità intelligibile, un racconto sensato: è, potremmo dire, la capacità di cogliere questo racconto che ci rende responsabili, cioè capaci di rispondere delle nostre azioni.”
E’ l’abbandono dello schema astratto (regole assolute) nelle quali l’uomo rinuncia al riconoscimento dell’altro, nel suo specifico di bisogni e debolezze.
La nuova morale si configura nell’invito a cogliere e sviluppare una rete di relazioni, legate tra loro in un racconto sensato, che si dipana davanti a chi, in questa rete, vive e tesse a sua volta.
Molte psicanaliste femministe hanno visto in questa capacità di accoglimento della relazione la conseguenza del modo di strutturarsi stesso della psiche femminile, la quale si sviluppa legandosi alle affiliazione e ai rapporti.
Sempre la Chorodow vede nella responsabilità materna della donna per i piccoli l’origine di questo carattere. La tendenza a riconoscersi come eticamente corretti in quanto individui in grado di prestare cura è, secondo l’autrice, strettamente legato all’esperienza della maternità.
La gravidanza, il parto e la cura dei piccoli (anche al di fuori della maternità biologica) comportano una serie di pratiche dalle quali derivano valori e saperi tipici.
Per sottolineare l’influsso della maternità nello sviluppo della coscienza etica femminile si è parlato di maternalismo, contrapponendo questo termine al termine paternalismo, connotato da caratteri meno positivi.
Maternalismo:
accezione debole: ravvisa nella maternità l’origine dei valori etici femminili (Sara Ruddick,1980). A fondamento del pensiero materno sono posti sia una capacità intellettuale, l’attenzione, relativa alla conoscenza ‘ speciale’ dell’altro, sia una virtù, l’amore, che implica l’apprezzamento di chi viene conosciuto.
accezione forte: individua nella maternità il paradigma etico di ogni relazione sociale (Shanklin e Love, 1984). Secondo questo concetto è opportuno che alla società dei padri faccia seguito la comunità delle madri. I legami contrattuali e ‘meccanici’, luogo della competizione, potranno così essere sostituiti da legami organici di appartenenza profonda, luogo della affiliazione.
L’etica della cura deriva quindi dal riconoscimento della diversità biologico-sociale dei sessi e dalla “coscienza riproduttiva” che caratterizza la donna e la rende direttamente partecipe al processo di dare e conservare la vita.
Dalla consapevolezza del ruolo vitale, non solo privato, della donna, deriva la nuova coscienza politica ed ecologica. Così come è fondamentale la funzione generativa, così diviene connaturata all’esistenza femminile quella conservativa della vita presente, intesa come vitalità e abitabilità del pianeta. La difesa della buona relazione, ottenuta con l’affiliazione, si coniuga alla difesa dell’ambiente, identificato come “casa per l’uomo” (Vandara Shiva, 1990 )
4. Rischi della deriva femminista
Gli errori nei quali può incorrere il dibattito femminista sono principalmente due
1. Generalizzazione
Con questo termine si intende la tentazione di generalizzare quanto detto riguardo alla coscienza femminile a tutte le donne, escludendo diversità di opinione o commini individuali diversificati. In secondo luogo si rischia di escludere la sensibilità maschile dalla problematica, attribuendole un universo etico rigido e non riconoscendo agli uomini la capacità di accedere ai valori della relazione e della rete.
2. Idealizzazione
E’ questa la deriva più pericolosa (femminismo essenzialista). In essa si arriva ad affermare l’esistenza di una “natura femminile” differenziate rispetto a quella patriarcale e superiore a essa. Si cade così nell’illusione di individuare sentimenti e qualità interpretandoli come esclusivi delle donne, interrompendo il dialogo e il confronto con l’altro sesso.
Ciò che è necessario non è far valere una supposta “voce di donna” nella riflessione etica, ma dare credito a “un’altra voce”, per superare l’impoverimento affettivo e le ristrettezze comportamentali nei quali l’etica dei principi rischia di farci cadere.
La presenza di qualità, come il prendersi cura e l’attitudine all’affiliazione, è di riscontro frequente nelle comunità che vivono in condizioni di segregazione o di oppressione e indigenza. Questi caratteri, tipici dell’universo morale femminile, possono quindi derivare da secoli di sottomissione e marginalità sociale. Proprio per queste ragioni, l’essere cioè frutto di sopraffazione culturale, le medesime qualità possono sfociare in alterazioni del comportamento, quali sono l’abnegazione autolesiva, l’ansietà, la rassegnazione fatalista.
Meglio è interpretare la voce del femminismo come una esigenza morale presente in tutti, da proporre come ragionamento etico non alternativo ma complementare.
5. L’etica della cura e la professione sanitaria
D. Callahan ha precisato la nozione di cura, reinterpretandola alla luce dell’esperienza professionale. Il “prendersi cura” viene visto dall’autore come la questione centrale della professione medica. Essa viene intesa come una disposizione originaria alla solidarietà (care), più ampia della semplice cura (cure). La cura, come per il pensiero femminista, è impegno, disponibilità fattiva a identificarsi con chi soffre e desiderio di alleviarne il disagio. All’inizio del rapporto terapeutico è posta una vivace “attenzione” alle richieste della situazione, attenzione che richiede una percezione “benevola” dell’altro.
Anche l’etica femminista aveva identificato nel decentramento dell’interesse da sé il nucleo della relazione di affiliazione. La capacità terapeutica da Callahan è vista come possibilità di riscoperta della “immaginazione” ( sola disposizione che aiuta ad assumere il punto di vista dell’altro) e del “senso di vulnerabilità” che rende possibile al medico comprendere il paziente alla luce della propria costitutiva fragilità.
Nel contesto dell’attività di cura acquistano centralità quelle virtù che i bioeticisti riconoscono da sempre rilevanti nella pratica medica e le femministe hanno evidenziato come caratteristiche della maternità. Esse sono (L. Battaglia, 1997) “la dedizione coraggiosa, il senso di responsabilità morale, la sollecitudine, l’indipendenza da pressioni economiche e corporative”.
L’etica femminista e la nuova bioetica della cura concordano nella critica netta al normativismo, denunciando l’illusorietà di ogni sapere lontano dall’esperienza, definibile su una base di norme generali astratte dalla situazione affettiva. La riproposta di una morale esperienziale, basata anche sull’esperienza di marginalità, sembra ricondurre la bioetica alla sua finalità di “arte di giudizio pratico” .
Particolare attenzione va data, in questi tempi di riscoperta del mondo degli affetti, alla possibilità che l’enfasi posta sull’aspetto relazionale dell’esistenza porti a una eccessiva tolleranza di comportamenti scorretti e lesivi dell’individualità altrui e alla paura di chiarire confini, anche normativi, della libertà individuale. Allo stesso modo un eccessivo valore attribuito all’etica esperienziale potrebbe indurre a un relativismo dell’etica stessa, misconoscendo la rilevanza morale del pensiero femminista.
Bibliografia
Battaglia, L. La ‘voce femminile’ in bioetica. Pensiero della differenza ed etica della cura in: S. Rodotà (a cura di), Questioni di Bioetica, Laterza, Bari 1997
Callahan, D. What kind of life. The limits of medical pro gress, Touchstone Books, New York 1990
Chodorow, N. Family Structure and feminine personality, in Rosaldo, M.Z. (a cura di ) Woman, culture and society, Stanford University Press, Stanford 1974
Erikson, E. Infanzia e società, Armando, Roma 1972
Gilligan, C. Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987
Jonas, H. Il principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1990
Lever, J. Sex differences in the games children play , in “Social Problems”, 23,1976
Nodding, N. Caring: a feminine approach to ethics and moral education , University of California Press, Berkeley, 1984
Piaget, J. Il giudizio morale nel fanciullo, Giunti barbera, Firenze, 1972
Ruddick, S. Maternal thinking in “Femminist Studies ”, 1980, 6
Shanklin, E.; Love, B. The answer il matriarchy, in Trebilcot, J. (a cura di ) Mothering: essays in feminist theory, Rowman and Allahmeld, Totowa, N.J. 1984
Shiva, V. Sopravvivere allo sviluppo, Petrini, Torino 1990