La disprassia è un quadro patologico ancora oggi non sempre riconosciuto che può umiliare il bambino e il preadolescente ed esporlo a una sofferenza ingiustificata.
Poiché ne sono portatrice, e nessuna devianza si conosce e si riconosce meglio della propria, desidero portare una testimonianza diretta che possa aiutare i genitori a comprendere il comportamento del loro bambino e a sostenerlo nel modo più discreto e utile possibile.
Cosa intendiamo per prassia
Per prassia si intende un comportamento motorio che conduca dalla ideazione di una azione alla sua realizzazione. Una buona competenza prassica si fonda sulla capacità di individuare, selezionare, pianificare, mettere in atto e portare a buon fine una sequenza di azioni con una devianza dall’atteso sostenibile. Tirare un calcio, afferrare una palla al volo, ma anche piantare un chiodo, cavare un tappo da una bottiglia sono esempi di prassie quotidiane nelle quali ci impegniamo senza neppure accorgerci, ma anche camminare, soffiarsi il naso, masticare un panino necessitano di un’adeguatezza prassica che non è data a priori a tutti nella medesima proporzione.
La disprassia: tanti modi per manifestarla
Parliamo di disprassia quando, in assenza di un problema neurologico o dell’apparato muscolo scheletrico e in integrità degli organi di senso, non riusciamo con competenza sufficiente a portare a termine progetti motori.
Possiamo essere disprassici in senso generale, non riuscire a calciare con precisione una palla, essere goffi nella camminata e nella corsa, o in senso settoriale, non saper usare bene le mani, non essere in grado di utilizzare con precisione utensili. Infine possiamo presentare una disprassia solo orale, essere cioè poco abili nel masticare, nel muovere labbra e lingua per deglutire o per fonare.
Non voglio soffermarmi sul quadro clinico delle diverse forme di disprassia, voglio invece riportare alcuni fatti biografici come esemplificazione per sorriderne e per chiarire come si possa essere goffi pur non avendo nessuna malattia. Allo stesso tempo voglio portare l’attenzione dei genitori sulla sofferenza che il problema genera nel bambino, sul senso di esclusione ed emarginazione nei confronti dei compagni che egli prova e soprattutto sottolineare l’importanza che un atteggiamento comprensivo e facilitatore ha sempre in questi casi.
Non deridere, non rimproverare, ma anche non vietare, non spaventare sono regole di base per chi si occupa di bimbi disprassici. Meno si fa, meno si impara a fare. Più ci si sente umiliati, più si restringe la sperimentazione sul campo.
La mia storia
Sin dalla prima infanzia, pur non presentando ritardo motorio, ho avuto difficoltà a correre velocemente, a scendere le scale, a calciare un palla. La mia incapacità a portare a buon fine una qualsiasi azione che prevedesse un minimo di “furbizia”, come diceva mio nonno, mi ha reso già dalle elementari oggetto di riso tra i coetanei.
Nonostante non avessi problemi di equilibrio mi è sempre stato impossibile utilizzare i pattini a rotelle, il monopattino, saltellare su un piede solo, alzarmi da terra senza appoggiarmi sulle mani. Se correvo con i libri in mano, inevitabilmente li facevo cadere. Se mi avventuravo sulle scale con un bicchiere di acqua, ne gocciolavo il contenuto gradino per gradino.
La mia abilità nello sport era pari allo zero. Ho ricordi brucianti al riguardo. A 10 anni in piedi sugli sci gridavo a mio padre guardando una pista azzurra “uccidimi ma da lì non scendo”. In terza media, salita non so come al terzo gradino del quadro svedese e li lasciata dal resto della classe, invocavo il bidello con una scala. La lezione di ginnastica era per me un incubo, non c’era esercizio che facessi senza terrore. La mia incapacità era talmente evidente (e stigmatizzata dal docente) che nelle gare di pallavolo venivo data come handicap alla squadra migliore, per penalizzarla con mia inettitudine. Il grido delle compagne all’arrivo della palla “non provare a toccarla” mi marchiava a fuoco a ogni incontro.
Per tutta la mia infanzia nessuno ha capito che ero una bimba disprassica. Venivo definita imbranata, incapace, sbadata e lasciata ai margini di ogni gioco di gruppo, aspramente rimproverata da mia madre e iperprotetta da mio padre.
Alla inadeguatezza motoria hanno fatto seguito da subito piccoli incidenti, cadute, scivoloni, slogature di caviglie e anche problemi di maggior rilievo. Durante le medie, il periodo per me più difficile, ho fratturato una gamba e due volte un piede, ogni volta risalendo dalla china della immobilità sempre meno sicura di me e meno motivata.
Da adulta le cose non sono andate meglio. I tacchi sono diventati per me ragazza ciò che un trampolo è per una persona normodotata. Perfino il rapporto con mio marito è stato penalizzato dalla mia incapacità: mai una passeggiata insieme in bicicletta, poche escursioni in montagna e sempre segnate dalla prudenza. La nostra vita è stata costellata di fatti tragicomici. Il giorno del mio matrimonio sono caduta rovinosamente entrando in chiesa da 5 centimetri di scarpa. A termine di gravidanza del mio secondogenito sono precipitata, senza danni, per le scale e via di seguito, da inciampo a inciampo, sino alla frattura di un piede occorsa mentre arrancavo con un bastone per la recente frattura di un ginocchio e alla pattinata sulla ciotola del micio di casa con una teglia bollente di lasagne in mano che mi ha obbligata a camminare per due mesi con stampelle e tutore.
Ora so che tutto ciò è imputabile alla disprassia.
Uso della mia storia personale per spiegare la natura del problema ai genitori dei mie pazienti, rassicurandoli con la mia vicenda biografica: ho studiato (forse per consolarmi) e ho un lavoro bello e soddisfacente. Eppure da piccola potevo sembrare una bimba poco intelligente, venivo presa in giro, si profetizzavano sul mio destino le cose peggiori!
Certo in casa, se prendo in mano un coltello affilato, qualcuno me lo sfila dolcemente e taglia il pane al mio posto, dicendomi “faccio io”. La mano di mio marito è sempre pronta a prendere la mia per le scale e nelle discese. I compiti più complessi della vita domestica mi sono evitati, con affetto e comprensione, ma a nulla ho rinunciato.