Il bambino inappetente o che accetta solo un ristretto numero di alimenti è spesso scorrettamente diagnosticato come anoressico.
Col termine anoressia si intende una alimentazione estremamente ridotta non obbligatoriamente associata a una mancanza di attrazione o al disgusto per il cibo. Se le diverse teorie psicogenetiche posso spiegare le forme che insorgono nel bambino più grandicello, nel caso dei piccoli e dei piccolissimi il termine anoressia è del tutto ingiustificato e va sostituito dalla dizione: disturbo della alimentazione.
Con il termine disturbo della alimentazione si intende una difficoltà ad accettare e a praticare le norme di alimentazione presenti nella cultura di origine, esitante in un quadro di alterazione del rapporto con il cibo sia in senso quantitativo (riduzione o aumento dell’apporto) sia in senso qualitativo (selettività estrema del cibo accettato).
Per capire la complessità di tale quadro quando esso si manifesta nell’età prescolare occorre analizzare i fattori che permettono in condizioni fisiologiche al bambino di passare da una alimentazione liquida a una alimentazione solida sempre più complessa in termini di preparazione del bolo e di separazione dell’edibile dal non edibile.
Quali le condizioni necessarie per una corretta relazione col cibo?
Possiamo ridurre a 3 le condizioni necessarie affinché un corretto rapporto con la alimentazione si sviluppi.
1. Proposta sin dalla nascita di esperienze orali in grado di stimolare la curiosità del piccolo per l’endoralità (intendendo col termine sia la bocca in quanto spazio anatomico che tutto ciò che in essa è collocato, anche di non biologico) e, con esse, le abilità prassiche della lingua e delle labbra.
2. Proposta di alimenti coerenti con le effettive e anagrafiche capacità di gestione del cibo.
3. Modellamento di stili di alimentazione adeguati al valore che la cultura di appartenenza attribuisce alla alimentazione (nutrimento, condivisione, socializzazione, conoscenza, ecc.).
La scarsa stimolazione
Dal primo punto possiamo subito comprendere come un disturbo della alimentazione si possa instaurare in quei bimbi che per situazioni patologiche subiscono una riduzione delle esperienze orali (alimentazione artificiale in età precoce, interventi dolorosi di ricostruzione della anatomia orale per malformazioni congenite, ospedalizzazioni prolungate), nei bimbi allevati in condizioni comunitarie, per i quali non è possibile una cura specifica dell’oralità con prolungamento dell’alimentazione liquida per ragioni di scarsità di personale e in quei piccoli che sono sottoposti a una protezione eccessiva che, nell’intento di contenere i rischi, riduce le opportunità di sperimentarsi.
Nelle tre condizioni precedenti il disturbo dell’alimentazione trova le proprie origini in una carenza di stimolazione e in una conseguente ridotta conoscenza della propria bocca, accompagnata da una scarsa abilità nella sua gestione.
Si tratta quindi di situazioni caratterizzate da deprivazione esperienziale che si traduce in inabilità prassica, cioè del saper fare.
Anche l’uso prolungato del ciuccio induce inabilità. La manovra di succhiamento impegna infatti la lingua in movimenti esclusivi sull’asse sagittale con il rischio che la rotazione e la lateralizzazione non vengano sperimentate. La conseguenza è una resistenza allo svezzamento e una difficoltà alla masticazione in epoche successive.
Recuperare il cibo dai fornici e riproporre poi il bolo alla triturazione molare senza rotazione linguale diventa una impresa impossibile e facilita l’ingestione accidentale, con conseguente dispnea, spavento e successivo rifiuto del cibo “masticabile”.
Eterna vita da lattante
Il secondo punto ci spinge a una riflessione più approfondita e meno banale. Mentre in campo motorio non impediamo a un bimbo che cresce di mettersi seduto, carponare, alzarsi in piedi, camminare, in campo alimentare possiamo essere tentati da una semplificazione sistematica qualitativa.
Le ragioni possono essere diverse, da un risparmio di tempo (una colazione a biberon si consuma più velocemente che latte e biscotti) a un timore che il bimbo possa non assumere sufficienti calorie da una alimentazione più variata e complessa.
Il risultato è il perdurare di abitudini da lattante in un bimbo che cresce con un mancato esercizio di quelle funzioni orali che garantiscono l’autonomia alimentare.
Con autonomia alimentare intendo la capacità di accedere al cibo in modo autonomo (non imboccato, non mediante lappatura o succhiamento), di gestirlo oralmente in modo consono all’età anagrafica (a 4 anni si può e si deve mangiare di tutto, anche le olive con il nocciolo), di adattarsi al cambiamento (sia nel senso di accettare ciò che viene offerto, ad esempio dalla mensa scolastica, sia nel senso di incuriosirsi per il nuovo).
L’autonomia alimentare non è diversa dalla autonomia deambulatoria. E’ una forma della libertà e un mezzo di esplorazione di ciò che abbiamo intorno.
Cibo come espressione della cultura
Qui viene il terzo punto. Il cibo, oltre a essere un mezzo di sostentamento è una delle modalità in cui passa la cultura di origine. Non solo quella culinaria, il piatto regionale o la torta della nonna, ma la modalità di abitare il mondo.
La tavola è il luogo della conversazione, cioè di quel nucleo del vivere civile che ci permette di esprimerci e di ascoltare gli altri. E’ la palestra nella quale si impara a condividere, dove si offre e si accetta il cibo e, con esso, la relazione.
Un bambino che per essere alimentato viene distratto con un filmato, un tablet, un telefonino, che viene messo a tavola “coi grandi” relegato al monologo col proprio giocattolo è un bambino che non sperimenta una delle esperienze più formative dell’umano: la convivialità, cioè il “vivere insieme”.
Cosa raccomandare quindi? Al genitore di usare il cibo non come fine ma come mezzo, al pediatra di valutare con cura se il bambino “sa masticare” prima di diagnosticare una anoressia.
Ricordiamoci poi che il passaggio da una alimentazione liquida, come quella a biberon, a una alimentazione solida porta con sé un rallentamento obbligato della deglutizione che si traduce in un prolungamento dei tempi di alimentazione.
Non solo il cibo nella bocca va preparato ma occorre imparare a prepararlo e ogni bimbo inevitabilmente raddoppia o triplica il tempo del pasto. Non è malavoglia, anoressia o capriccio è il normale periodo dell’apprendistato.