Silvia Magnani

Il mestiere della cura e l’esperienza infantile

Nella mia famiglia di origine curare una persona era accompagnato da estrema preoccupazione, intrusività e colorato da un’ansia incontenibile. La malattia, qualunque essa fosse, generava paura. E la paura era mantenuta da un senso di incompetenza, di inadeguatezza collettiva al compito di favorire la guarigione.

Dopo la malattia di mio nonno, morto quando io avevo otto anni, non ci si poteva ammalare, pena il far cadere la comunità famigliare nella confusione.

Mia madre e mia zia smisero di sottoporsi ad  esami di routine (furono obbligate solo col sopraggiungere della vecchiaia) e a mia nonna fu attribuita l’etichetta di “malata cronica” per la sua sofferenza artrosica e ogni acciacco fu considerato una inevitabile conseguenza. L’anziana domestica, che viveva con noi dai suoi 16 anni, una volta colpita da una lieve ischemia cerebrale, fu affidata alla cure della cognata, che la riprese in casa,  in Friuli, per depositarla poco dopo in una casa di riposo.

In questa famiglia, che negava la malattia per l’ansia che essa generava, mi era proibito ammalarmi e, se mi ammalavo, subivo un’aggressività molesta, come quella che si dà a chi rompe gli equilibri, offende e destabilizza. Mi sono sempre sentita in colpa, sin da bambina, per ogni influenza, mal di gola e malattia esantematica. Tradivo la regola familiare.

I molti incidenti che hanno caratterizzato la mia storia clinica di disprassica, facile alle cadute, hanno peggiorato la mia situazione. Era colpa mia se mi fratturavo, così come era per la mia sbadataggine che prendevo un raffreddore: non mi asciugavo bene i capelli, mi vestivo troppo leggera, mi intestardivo a mettere dei tacchi.

La sensazione di essere colpevole per le mie patologie non mi abbandona e solo oggi, costretta a casa da una faringite, capisco che tra le vicende della mia infanzia e della giovinezza e il mio scegliere di fare il medico c’è un determinismo evidente. E’ un modo per legittimarmi. Prendermi cura della fragilità degli altri è prendermi cura della mia, con uno sguardo comprensivo, privo di ostilità e di fastidio.