Perché vi sia relazione basta che due sistemi corpo-cervello condividano un ambiente. E’ questa la verità che dobbiamo alla scuola di Palo Alto e che è stata riformulata, dopo la scoperta dei neuroni specchio, da Gallese.
L’intersoggettività, cioè la relazione vera tra soggetti, è inevitabilmente mediata dal corpo, un corpo reale, presente, che si può vedere, ascoltare e toccare.
E’ in questa accezione che l’intersoggettività non ha bisogno per svilupparsi del sociale, cioè di un ambiente abitato da più persone, ma le è sufficiente il rapporto diadico, quello che si instaura alla nascita tra mamma e bambino e, ancora prima, si è sviluppato in utero, mediato dai movimenti fetali, reso consapevole dall’aumentare del peso corporeo, mediato dai pensieri che, sino da quando sappiamo di essere gravide, sono rivolte al bambino “immaginario” eppure già presente nella nostra progettualità.
Siamo tessitori di legami
Per corredo genetico la nostra specie è votata a far nascere legami. La capacità imitativa, già presente nel neonato, la risposta al sorriso, l’accettazione dello sguardo condiviso sono le basi della intersoggettività nella quale prende forma l’Io.
Sì, perché la risposta al “chi sono” non mi viene data da me stesso ma dall’altro che mi guarda rispecchiandomi, che mi tocca e mi parla, rimandandomi l’amore col quale mi accoglie.
Io sono ciò che sono per la madre, oggetto del suo amore divento così soggetto di me stesso.
Le carezze, l’abbraccio, il nutrimento, generano in me sensazioni che sempre più localizzo in quel corpo che è il mio e più il mio corpo mi appartiene, più prende forma il corpo materno, la voce e il viso di lei divengono luoghi del riconoscimento dell’altro da me, proiettandomi in quella dimensione condivisa che è la socialità .
Vengo a me stesso solo attraverso l’altro
Questo processo di venire a se stessi continua tutta la vita ed è il rapporto con l’altro che lo rende possibile. La continua ricerca del “chi sono” si compie solo nel contatto con chi non è me, nel riconoscimento della diversità e nella sua accettazione.
Questo cammino evolutivo coinvolge tutte le dimensioni umane. Dalla dimensione corporea (io sono questo corpo, che non è il corpo di mia madre) alla dimensione etica (la mie convinzioni si consolidano a confronto con le regole morali che guidano chi ho a fianco), alla emotiva, attraverso i processi di empatia, con il riconoscimento nell’altro dell’emozione che già conosco come mia.
In questo modo la conoscenza dell’altro diviene conoscenza di me stesso. Ma questa conoscenza, questo processo vitale che ci rende viaggiatori verso un senso, ha bisogno di corpi che si tocchino, di sguardi che si cerchino, di voci nell’ambiente.
Soffro enormemente questa mancanza in questo disgraziato periodo. Non solo mancanza di contatto con i miei amici, con gli allievi in aula, ma mancanza della stretta di mano con la persona appena conosciuta, contatto che trasporta un po’ di ciascuno e che diviene luogo di trasmissione energetica.