Con la parola Collettivo non si intende gruppo, non si intende comunità, anche se entrambe queste realtà hanno contribuito a dar voce a quell’esigenza particolare di vita comunitaria che ha caratterizzato la generazione del rock.
Un gruppo è composto da persone unite da un fine o una situazione comune, ma comunque mantenenti ciascuna la propria individualità. Una comunità è un’insieme di persone che condividono alcuni aspetti pratici della vita quotidiana.
Collettivo, collettività è qualcosa di più forte.
Nella collettività si vive l’unione con i compagni, se ne condividono esperienze e progetti, ci si identifica con la pluralità. Il singolo perde la propria connotazione di individuo per sfumare in un sentire comune nel quale anche gli altri si identificano.
Il grande senso del collettivo ha profondamente segnato chi ha vissuto, come me, la propria giovinezza negli anni tra il 60 e l’80 per almeno tre ragioni.
- La coscienza profonda di appartenere a una generazione culturalmente, politicamente, intellettualmente unitaria.
- La condivisione di valori e atteggiamenti così diffusi e unanimemente sposati, da divenire fattori di riconoscimento interclassista (il pacifismo, l’etica della condivisione, la rinuncia alla politica dei privilegi, ecc..).
- La coscienza di un’eguaglianza sostanziale sul piano emotivo e razionale di tutti gli uomini (l’antisegregazionismo, il femminismo, la rinuncia al campanilismo ragionale o nazionale, il senso di profonda ingiustizia delle guerre di sopraffazione e conquista).
La musica ne ha derivato alcune delle sue caratteristiche peculiari che amo ricordare.
L’amore per il concerto
E’ dal sentirsi membri di una collettività che nasce l’amore per il concerto, per il suonare davanti a un pubblico innumerevole, sui prati e nelle piazze, in luoghi raggiungibili da tutti, con possibilità di pernottamento all’aperto e di bivacco. E’ del 1967 il festival di Monterey, di 2 anni dopo la straordinaria esperienza di Woodstock. I concerti rock sono un’occasione di solidarietà, di incontro, di confronto.
Negli anni 70 si va a un concerto come a una cerimonia di purificazione collettiva, si canta in coro mentre gli artisti stessi rinunciano ai divismi, alternandosi sul palco in un susseguirsi di suggestioni acustiche nelle quali il pubblico si immerge.
Sul piano pratico questa nuova tendenza si traduce in alcune caratteristiche del filone musicale. La musica per tutti diviene musica di tutti; chiunque è autorizzato a intervenire, dal pubblico come sul palcoscenico, cantando con e per gli altri. Il confine tra professionalità e improvvisazione si sfuma, così come si perde l’esigenza della perfetta esecuzione. La voglia di condividere la propria esperienza emotiva in un contesto collettivo genera manifestazioni spontanee, di proporzioni bibliche, una delle quali è il crowd chant, il canto che la folla bagnata improvvisa a Woodstock dopo un violento temporale. La libertà in questi anni ‘è partecipazione’ come dice Giorgio Gaber nel suo recital “Far finta di essere sani”.
L’amplificazione del suono
L’amplificazione, dovuta alla necessità di rendersi udibili in ampi spazi, fa nascere il gusto per l’ascolto a forte intensità. La vibrazione sonora diviene vibrazione corporea, percepita e propagata dalle stesse membra, in un crescendo di sensazioni acustiche e fisico-corporee. Ai concerti si vive un’esperienza totalizzante, nella quale la fruizione estetica è solo uno degli aspetti.
Il disco live
La moda del concerto influenza da subito le modalità di produzione discografica. Alle registrazioni in studio, tecnicamente perfette, ma ora sentite prive di energia e incapaci di generare quelle sensazioni forti che il pubblico ricerca, si sostituiscono le più improvvisate registrazioni dal vivo.
Il disco live rinuncia alla precisione stilistica, in nome della maggiore immediatezza e della necessità di storicizzare l’evento.
La voce non eufonica
Anche la voce partecipa al sovvertimento della modalità di canto. Al cantante non è richiesta precisione esecutiva, quanto piuttosto energia, dinamismo, abilità di improvvisazione dal vivo, capacità di adattarsi alla provocazione del pubblico, plasticità e intuizione.
La figura professionale è completamente sovvertita, al cantante isolato si sostituiscono le band, vere e proprie famiglie musicali, nelle quali i membri stabili offrono ospitalità provvisoria ad altri artisti per un concerto o per un tour. Iniziano scambi e confronti di stili, di modalità esecutive e compositive. Poetiche diverse convivono condividendo rischi e guadagni di iniziative a metà tra il commerciale e il propagandistico.
Sono gli anni in America della rivolta giovanile, del Vietnam, della nascita delle idealità ispirate al pacifismo, alla fratellanza, al collettivo. Collettivo, parola che richiama in noi, ragazzi negli anni 70, ricordi ed emozioni: il collettivo delle donne, il collettivo degli studenti, il comitato di quartiere e il suo collettivo che ne disegnava gli scopi e ne indicava le strategie.
E’ interessante vedere come questa figura sociale della esperienza collettiva sia stata cancellata dalla realtà della relazione a distanza. Là dove la discussione portava a una scelta condivisa e, soprattutto, a un agire, nella rete singoli pareri si confrontano, con difficoltà di replica e senza un dialogo reale. Nel collettivo si incontravano persone, si stringevano amicizie in un legame che comportava spesso la condivisione dell’alloggio, del cibo. Nella rete ogni soggetto dalla propria solitudine manda messaggi, fotografando, invece che offrendo, ciò che possiede. Al collettivo, nella migliore delle ipotesi, si è sostituito il team o il gruppo di dialogo.
L’aula e la condizione di discente rimane un luogo privilegiato per sperimentare anche ora il senso di appartenenza e di condivisione, esso sia un progetto o una passione. Auguro ai miei allievi di trovare nei colleghi compagni di viaggio.