L’esperienza
L’esperienza fa riferimento a una conoscenza dovuta all’esperire, cioè allo sperimentare secondo il principio di causa ed effetto. Sulla base delle esperienze si stabiliscono le evidenze e con la guida di esse in medicina si individuano i percorsi diagnostici e terapeutici corretti.
Una caratteristica della esperienza è che per poter fruire dei suoi benefici non occorre sperimentare a nostra volta. Il frutto dell’esperienza e della evidenza che ne consegue è la formulazione di leggi(pensiamo a Newton e alla sua mela), cioè di rapporti certi tra un effetto e una causa. Leggi che possiamo utilizzare senza dover a nostra volta istruire una ricerca. In un certo senso le evidenze ci semplificano la vita.
In realtà però nella realtà bio-medica (e si è visto nella fisica), poiché la possibilità di sperimentazione è senza limiti, è sempre possibile che una nuova esperienza vanifichi il valore della precedente ricerca, trovando contraddizioni a una legge data per certa o addirittura negandola e sostituendola con un’altra.
Un caso sintomatico di evidenza successivamente disconfermata è stato il riconoscere nella dieta mediterranea la ragione della longevità di una fascia di popolazione analizzata, salvo poi accorgersi che tale longevità non era legata al tipo di dieta (la variabile presa in considerazione nella ricerca della relazione causa-effetto) ma al tipo di religione praticata. La maggior durata della vita media era infatti dovuta alla pratica dei digiuni rituali, quindi a un criterio non di selezione del cibo ma di astensione.
Le evidenze in medicina devono essere continuamente sottoposte a un processo di validazione. In un certo senso le evidenze sono “a tempo”.
Non solo evidenze
Il processo diagnostico e la scelta terapeutica, oltre alla conoscenza delle evidenze, necessitano però di una competenza in più.
Ciò che deve affiancarsi al rispetto delle linee guida è un altro tipo di esperienza, maturata nel tempo e patrimonio di ciascuno, frutto della storia personale, dell’attività clinica e della relazione umana avuta coi pazienti. Solo questa particolare forma di esperienza permette la nascita dell’empatia, cioè di quel porsi di fronte all’altro da persona a persona che permette di comprendere il vissuto di malattia del paziente, considerato all’interno della sua cultura, della sua etnia, della sua rete di legami e di affetti.
Ma anche questo non è sufficiente. Solo quando il medico coniuga la conoscenza delle evidenze e la capacità empatica con il sapere dell’umano nella sua accezione più vasta giunge alla sapienza, cioè a quella più profonda comprensione di se stesso che è la base della relazione di cura.
Le evidenze sono alla portata di tutti, basta poter accedere alla letteratura, ma la sapienza clinica è frutto dell’avere vissuto e dell’aver colto la relazione col paziente come irripetibile occasione di conoscenza non solo della malattia e del malato ma di sé .
Per questo, da medici maturi, addirittura anziani, non coniugare evidenza e sapienza è comportarsi come un timoroso neolureato.
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