Quando negli anni 90 Oskar Schindler mi chiese di scrivere un libro sulla vocalità dell’attore e di inserire in esso qualche esercizio di respirazione e vocalizzo si aspettava che rivedessi la letteratura e ne traessi qualche dritta.
Mi ero specializzata in Foniatria qualche anno prima con una tesi dal titolo “Applicazione della disciplina Yoga nella terapia della disfonia”, ero stata per anni maestra di Yoga, avevo seguito per tutta l’università un maestro Zen ma soprattutto odiavo fare opera di consultazione bibliografica, preferivo il pensiero autonomo e creativo. Invece di esporre ciò che era stato formalizzato da altri, ho inventato un eserciziario.
Quel primo libro ha visto la nascita del metodo di educazione della voce che ha il mio nome e che nel tempo, con l’esperienza clinica, è divenuto percorso di riabilitativo della voce malata. Le sue radici sono l’esperienza nelle discipline orientali, la sua filosofia quella tratta dagli studi di fisiologia che mi hanno profondamente segnata nel corso di laurea.
Cosa è un metodo
Un metodo è per prima cosa il derivato diretto di un modo di pensare. Gli esercizi che lo caratterizzano e la pratica di esso vengono dopo, essi sono la naturale conseguenza della riflessione che lo informa.
In questo senso un metodo è qualcosa di molto personale, qualcosa che riflette il modo di rapportarsi al mondo dell’autore e le sue esperienza pregresse.
E’ una presa di posizione davanti a un problema e, insieme, un’assunzione di responsabilità.
Un metodo serve a garantire nell’aspetto teorico una scelta agita nella pratica. Lega cioè un certo modo di operare a un certo modo di pensare secondo criteri di congruenza e per ogni pratica presentata ne giustifica la scelta e ne finalizza l’uso.
C’è bisogno di presenza
Nella proposta di un metodo che si occupi di educazione della voce o di terapia della disfonia occorre che nell’idearlo ci si basi sulla realtà fisiologica dell’uomo e che nel formalizzarlo si tenga sempre conto della facile applicabilità.
Naturalmente perché da una riflessione personale si giunga a una raccomandazione di azioni da svolgere, nello specifico a una raccolta di esercizi, occorre che per prima cosa si sperimenti quanto ideato su se stessi e successivamente se ne verifichi l’efficacia su numerosi soggetti, così che quello che funziona sull’ideatore si dimostri applicabile ad altri.
Ma un metodo non trae la propria autorevolezza soltanto di una proprietà transitiva: da me a te. Ti insegno qualcosa che mi ha giovato e dal quale anche tu trarrai beneficio. Se è davvero valido, esso possiede un’azione beneficante che si propaga in modo circolare: da me a te e, ancora, a me. Mentre ti trasmetto il metodo e ti vedo apprenderlo, capisco altre cose di me e così facendo riesamino, riformulo e rinnovo.
Un metodo è una cosa viva, cioè non è una successione di item affidabili a un testo scritto o, peggio ancora, una raccolta di videolezioni. Lo si può apprendere solo con una trasmissione diretta da insegnante a discente dalla quale entrambi traggono beneficio ed energia. Trasmissione che necessita di presenza e luogo condiviso, di intimità e fiducia, in altre parole di una relazione, nel nostro caso fatta di parole, di voce, di mani, di corpi.
Il metodo non si cristallizza
Un metodo non si esaurisce nella sua prima formulazione. Esso, per dimostrarsi applicabile, deve obbligare il suo ideatore a costanti ripensamenti perché le risposte dell’allievo al quale lo insegna sono fonti di rinnovata ideazione.
Un metodo è destinato ad evolversi sino a che si continua a praticarlo e a riflettere su su di esso.
Per questa ragione mi sono molto dispiaciuta che non mi sia stata data la possibilità di riformularlo nelle successive edizioni del libro nel quale l’ho esposto per la prima volta (“Curare la voce”).
Per la medesima ragione lo insegno ancora personalmente nei corsi, perché solo praticandolo con gli allievi in aula lo rimodello e lo rinnovo.
Il metodo è ovvio
Un metodo è tanto più affidabile quanto più è palese la sua assoluta ovvietà.
Esso non può essere risultato di un pensiero complesso ma evidenza della coscienza o della percezione, in questo senso applicabile da tutti e giustificato dalla stessa esperienza dell’essere vivi e pensanti.
Se un percorso di apprendimento è cavilloso, complicato, innaturale non è un metodo, è un addestramento.
Esso insegna “a fare” senza capire.
Un metodo ci invita a riscoprire ciò che già sappiamo, ciò che ci appartiene e, in questo modo, a comprenderci meglio.
Quando Kant teorizzò i “giudizi sintetici a priori” come metodo della conoscenza è perché si accorse che ciò che lui faceva era fatto da tutti: applicare alla realtà valutazioni già presenti nella mente. Giudicare a priori era il solo procedimento che permetteva di raggiungere una conoscenza valida, cioè il metodo della consocenza. Ma quando conclude la Critica della Ragion Pratica con le parole: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me” Kant non fa che constatare che il metodo di conoscenza teorizzato altro non è che la presa d’atto di una evidenza elementare, che la complessa e articolata formulazione della sua filosofia si racchiude in una ovvietà che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.
Insegnare per imparare
Per tutta la mia vita professionale ho fatto didattica e ho imparato insegnando. L’aula è stata per me il luogo di riflessione privilegiato, il luogo dove trovavano forma intuizioni perché obbligatoriamente dovevo dar loro forma di parole.
Con il 2017 ho deciso di non fermarmi a dare attestati di frequenza a coloro che frequentano i miei corsi ma di accreditare come logopedisti formati al metodo di terapia della disfonia coloro che lo vorranno e che compiranno un percorso ulteriore di formazione. Non si tratta di una certificazione formale ma di una validazione sul campo, per la quale prevedo la supervisione dei casi clinici e l’effettiva applicazione del metodo che è stato appreso. E’ per me una ulteriore occasione di riflessione e, alla mia età, non voglio perdermela.